Nell’ambito dei procedimenti di separazione e divorzio, una delle questioni più complesse da affrontare, quando non c’è discordanza sul collocamento dei figli, è quella della quantificazione dei c.d. assegni di mantenimento.
Assegni che possono essere relativi al mantenimento dei figli o al mantenimento del coniuge.
La normativa vigente indica con precisione i parametri da utilizzare per la quantificazione di tali assegni: l’art. 337 ter cod. civ. indica quelli per il mantenimento dei minori, l’art. 156 cod. civ. indica quelli per il mantenimento del coniuge in sede di separazione e l’art. 5, VI comma, l. 898/70 indica quelli per l’assegno divorzile, su cui recentemente la Corte di Cassazione si è espressa numerose volte.
Ciò che accomuna tutti gli istituti è certamente la valutazione dei redditi e del patrimonio dei genitori/coniugi.
Tale operazione è necessaria per valutare quale sia la capacità economica di ciascun genitore, quale sia il coniuge “economicamente più debole” e quale esborso mensile il coniuge “più ricco” è in grado di sostenere.
Con riferimento ai redditi, capita – purtroppo spesso – che uno dei genitori/coniugi guadagni più di quanto dichiari formalmente all’Agenzia delle Entrate.
Come si accerta dunque la reale capacità economica di tali soggetti?
I Tribunali adottano strategie diverse, nelle diverse situazioni: possono essere disposti accertamenti dell’Agenzia delle Entrate, può essere ordinata l’esibizione dei conti correnti, oppure la reale capacità economica di una parte può essere individuata per presunzione, alla luce di quanto emerso dalle prove assunte.
Il Tribunale di Velletri, con la sentenza n. 664 del 9 marzo – 23 aprile 2020, ha applicato tale ultima soluzione: in un procedimento di separazione il marito affermava di guadagnare circa € 15.000 all’anno, ma la moglie contestava tale affermazione sostenendo che i suoi redditi fossero almeno doppi.
Al fine di provare tale circostanza, la moglie – che era stata per anni contabile del marito – ha prodotto in giudizio alcune “schede di interventi”, che le erano state consegnate durante la sua attività lavorativa, a margine delle quali era riportata la dicitura S/R – senza ricevuta – o C/R – con ricevuta.
Alla luce della continua negazione da parte del marito, la moglie ha chiamato quale testimone il fratello – nonché ex socio – del marito, che ha dichiarato “Sugli interventi di assistenza eseguiti da me accanto all'importo indicavo la dicitura SR ossia senza ricevuta”.
Sulla base di tali risultanze, il Tribunale di Velletri ha affermato che “è da ritenere presumibile […] che gran parte degli introiti nella misura di circa il 50% vengano percepiti in nero con la corresponsione del danaro da parte del cliente per il servizio prestato senza la emissione della prescritta ricevuta. […] Al riguardo è da ritenersi che tale prassi purtroppo assai diffusa nel paese continui ad essere utilizzata anche per la gestione della attuale impresa familiare costituita dal L. con il figlio E., per cui è presumibile che il ricorrente possa in concreto fare affidamento su introiti ben più alti di quelli dichiarati a fini fiscali”.
Effettuata tale valutazione, il Tribunale ha determinato in € 1.000,00 mensili il contributo paterno al mantenimento dei due figli minorenni e in € 600,00 l’assegno di mantenimento del coniuge.
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Pubblicato lunedì 08 giugno 2020
da Studio Legale Piantanida